Leggendo le storie nel kojiki, mi chiedo quanto anche noi, oggi, potremmo imparare a vivere i nostri gesti quotidiani come parte di un grande rito? Quanto potremmo vedere la natura come maestra, le nostre parole come suoni sacri, le nostre relazioni come legami cosmici?
Nelle cronache degli Dei, non c’è distinzione tra ordinario e sacro, il gesto di masticare, scavare, piangere, cantare o partorire è allo stesso tempo azione pratica e risonanza cosmica. Forse vale lo stesso anche per noi ma abbiamo disimparato a percepirlo?
mi ha colpito molto quanto ogni evento narrato non sia mai solo umano, ma sempre intrecciato con il divino.
In queste pagine si raccontano i matrimoni dei principi imperiali, i viaggi in terre lontane, le morti e le successioni al trono. Ma ciò che colpisce è come tutto questo venga accompagnato da canti rituali, presagi della natura e segni divini. È bellissimo leggere questi testi con l’immaginazione, e come se il libro diventasse un mondo, la pagina un portale.
Nel testo, ogni volta che i principi trascurano i riti o disprezzano i segni degli Dei, sorgono conflitti, malattie o disgrazie. È forse un avvertimento? quando viviamo senza ascolto e senza rispetto per ciò che è più grande di noi, ci sta forse dicendo che perdiamo equilibrio?
Quando le famiglie litigano o i principi si dividono, tutto si spezza. Il testo fa capire bene che la divisione nasce quando si dimentica che l’armonia è più importante dell’ego. È come se il testo dicesse a chiari lettere (se lo leggiamo con il sentire e non con la mente razionale) quando dimentichiamo il divino, quando smettiamo di ascoltare ciò che è più grande di noi, perdiamo equilibrio.
Questa stessa intuizione l’ho ritrovata anche in un testo antico di Eguchi Toshihiro che recitava:
“Se vi ammalate, la prima cosa da fare è scusarvi dal profondo del cuore dicendo:
Ah, ho fatto qualcosa che non andava.
Chiedete scusa ai membri della vostra famiglia.
Chiedete scusa ai vostri amici e conoscenti.
Chiedete scusa alle divinità del cielo e della terra.”
Il Kojiki e Eguchi, mi pare che ci stiano dicendo la stessa cosa, ovvero che la malattia o la disgrazia non sono solo fatti “esteriori”, ma segnali di un legame spezzato con sé stessi, con gli altri, con il cosmo. E non credo che si parli di colpa. Piuttosto di una possibilità, quella di riconciliarsi.
Chiedere scusa non è punirsi, ma ammettere di essersi allontanati dall’armonia. Le divinità del cielo e della terra non dobbiamo pensarle per forza in senso religioso, possono rappresentare le forze invisibili e naturali che ci sostengono.
In fondo, sia il Kojiki che Eguchi ci ricordano che siamo parte di una rete di relazioni familiari, sociali, cosmiche e che quando quella rete si spezza, anche noi ci spezziamo. Ma ogni volta abbiamo l’occasione di riallacciare il legame.
Allora si, chiedere scusa diventa così un primo passo di consapevolezza.
Un ritorno. Un inizio.
Mario Russo

